Dino Ignani
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Massimo Raffaeli

- Chi arriva in metro dalla Stazione Termini deve scendere alla fermata Lepanto e proseguire con il 280 fino a pochi passi dal civico 1 di Lungotevere della Vittoria: lì, in vista del Ponte della Musica e di Monte Mario, c’è la palazzina ad angolo in stile razionalista, risalente agli anni trenta e di recente restaurata, che ospita al quinto piano Casa Moravia, luogo cruciale e sul serio emozionante della cultura letteraria dell’Urbe: trasferitosi dalla centralissima via dell’Oca dove aveva convissuto con Elsa Morante, lo scrittore andò ad abitarvi nel ‘63, reduce dal successo internazionale del romanzo La noia, per viverci fino alla scomparsa (avvenuta il 26 settembre del ‘90) prima con Dacia Maraini poi con la seconda moglie Carmen Llera. Una casa raffinatamente borghese, si direbbe, per il narratore che della borghesia italiana è stato per oltre mezzo secolo tanto l’implacabile sismografo, sin dall’uscita de Gli indifferenti (’29), quanto il critico più radicale della metafisica di sesso/sangue/soldi che continua a caratterizzare una classe sociale mutante e opportunista, talora volgare e sguaiata, a Roma nota con l’appellativo di «generone».

VA PREMESSO sia che gli interventi postumi sull’appartamento (un intero piano, l’ultimo, di circa 200 metri quadri) sono stati minimi e condotti con acume filologico. sia che il visitatore è qui accompagnato da chi lavora a tempo pieno in Casa Moravia, cioè la scrittrice Carola Susani, che ha il ruolo di dirigente e nel nostro caso di guida itinerante e prodiga di informazioni, Ilaria Campodonico, che si occupa dell’ufficio stampa e Valerio Skofic che invece cura l’archivio e la biblioteca.

La luce dilagante, il rumore appena percettibile del traffico e il leggero sciabordìo del fiume, a finestre aperte, introducono in medias res e consuonano con la pittura di cui Casa Moravia è ricchissima, a partire dal vestibolo dove campeggia uno stupendo Ritratto approssimativo di Alberto Moravia a firma di Mario Schifano, cui si aggiungeranno nella memoria del visitatore, fra le numerose altre, notevoli tele della sorella Adriana Pincherle, un paio di Toti Scialoja dei primi anni cinquanta, un raro ritratto moraviano en noir di Sergio Vacchi e alcune opere di un altro amico pittore, raffinatissimo e mai abbastanza valutato, Lorenzo Tornabuoni.

La biblioteca, di cospicue dimensioni (sono circa 12.000 volumi), è collocata in bianchi scaffali lungo i corridoi e rispetta la disposizione originale come oggi è d’uso per le biblioteche d’autore: viceversa pochi libri (i più amati, cioè i russi e Dostoevskij che fu l’autore della sua formazione di ragazzo malato e autodidatta) occupano l’epicentro di Casa Moravia, lo studio dello scrittore a picco sul Tevere, la cui ansa protesa verso i quartieri alti di Roma si può ammirare dal magnifico terrazzo che permette una visita nella visita.

LO STUDIO IN SÉ appare spoglio, con un vecchio telefono color avana a cornetta e disco numerico, mentre sul tavolo troneggia una Olivetti color verde acqua con la quale Moravia scriveva ogni mattina, regolarmente fino a mezzogiorno, i suoi romanzi: è l’ambiente che torna in molte immagini di repertorio, specie quelle (ora disponibili in youtube) dell’intervista in cui il suo primo biografo, Enzo Siciliano, gli chiede chi butterebbe dalla torre, come nel classico gioco, tra Flaubert e Dostoevskij e lui, ovviamente, risponde il primo dei due accusandolo di avere ucciso il romanzo per le manie stilistiche e l’eccessivo formalismo. (Per parte sua, come è noto, Moravia si attenne tutta la vita a un italiano spoglio e denotativo, la lingua «di plastica» – e appunto modernissima – di cui disse una volta il critico Luigi Baldacci).

Ma sul serio imponente, nello studio, è la presenza del tavolo da lavoro realizzato tutto quanto in legno, da travi del ‘600 in quercia e noce, e costruito in modo che sedendosi lo scrittore potesse allungare senza ostacoli la gamba vulnerata dalla tubercolosi ossea che lo colpì giovanissimo. Il tavolo dello studio è un’opera d’arte e costituisce una leggenda vera e propria: fu un amico a costruirglielo, poco dopo il ’68, l’artista e poligrafo tedesco Sebastian Schadhauser, purtroppo mancato di recente, che ne parla in un podcast a cura di un altro moraviano militante, lo scrittore Lorenzo Pavolini (La scrivania – Sebastian Schadhauser, open.spotify.com), dove Schadhauser ricorda il silenzio come spazio elettivo di Moravia e, insieme, come paradossale connettivo di amicizia: «Il suo silenzio, il suo sguardo, per me era una ispirazione e in questo Alberto mi ha insegnato tutto… Lui pensava, si dava tutto il tempo di pensare… e tu con Alberto potevi rimanere ore e ore senza dire una parola».

Stando ancora alla testimonianza di Schadhauser, pare che Moravia avesse affidato proprio a lui il compito di bruciare nel caminetto di casa una enorme quantità di mano e dattiloscritti. Che Moravia non fosse un accurato amministratore e tanto meno un feticista delle proprie carte era noto dal lavoro dei filologi Simone Casini (curatore delle Opere da Bompiani) e Alessandra Grandelis, specialista dei carteggi e attuale responsabile scientifica dell’Associazione Fondo Alberto Moravia: lo conferma la visita dove, lasciati alle spalle sia il soggiorno, con il ritratto celeberrimo – e psicologicamente congeniale – di Renato Guttuso, sia una camera da letto spartana con il giradischi stereo (ma, fa notare Carola Susani, un tempo la camera strabordava di libri ammucchiati alla rinfusa) si accede finalmente all’archivio ospitato nel piccolo appartamento attiguo, già riservato allo studio di Dacia Maraini e agli amici di passaggio.

L’archivio è inventariato secondo criteri scientifici ed è diviso tra le opere di invenzione e la corrispondenza. Si tratta di un materiale cospicuo, ora pienamente accessibile agli studiosi, ma lacunoso quanto al periodo che va dagli anni venti alla metà degli anni trenta (come dire che, di fatto, Gli indifferenti vi risultano esclusi). Moravia è poco incline alla scrittura a mano e, in effetti, quando Skofic apre a mo’ di esempio la cartella a cassetto dove sono custoditi i materiali relativi a La noia, ne esce un primo abbozzo, poche righe così schematiche da confondersi con un soggetto cinematografico, ma già battute a macchina e pronte ad espandersi nelle successive stesure che in certi casi sono superstiti ma in diversi altri no.

DUNQUE, non soltanto Moravia ignorava la manutenzione del proprio archivio ma mostrava di preferire il da farsi al già fatto secondo una procedura, alla lettera, sperimentale e a dispetto di un vetusto stereotipo che lo vorrebbe monolitico, sempre eguale a sé medesimo, specchio immobile del generone borghese, di quella Roma dei ministeri e dei pubblici apparati che nel trasformismo trova la propria immutabile insegna. Monolitico? In realtà non c’è genere letterario che Moravia non abbia praticato, e variamente utilizzato all’interno dei propri romanzi, dal racconto appena imbastito alla partitura teatrale, dal saggio all’articolo di giornale, dal cinema al reportage di viaggio: sempre differente e sempre identico a sé stesso, forte del suo stile vitreo e trasparente come il cielo di Roma che stamattina satura di luce le stanze di Casa Moravia.

L'articolo è apparso su
        Il Manifesto
              del 09 aprile 2024


        
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