Dino Ignani
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Montevergine - "La juta dei         femminielli"

Tammorre, putipù, triccabballacche, scetavaiasse. Ai 1.300 metri del monte Partenio non c’è strumento musicale che sia in grado, da solo, di far sbucare un raggio di sole tra le nubi che stazionano perenni sui boschi e di mostrare sotto una luce diversa l’abbazia di Montevergine e le centinaia di popolani che danzano allegramente e bevono vino anche se sono appena le 10 di mattina. Sono venuto fin quassù, nel giorno della Candelora – quando, secondo un antico proverbio, “se nevica o se plora dall’inverno semo fora” – per assistere a un antico rito: la “juta dei femminielli”, l’“andata degli omosessuali” al santuario della madonna nera denominata Mamma Schiavona, una processione- festa unica al mondo alla quale accorrono gay da tutta la Campania per ricordare un antico miracolo che vale la pena raccontare. Solo Mamma Schiavona, la “mamma di tutti” – narra la leggenda – fu in grado di far rischiarare il cielo e sciogliere le lastre di ghiaccio che tenevano imprigionata una coppia di omosessuali scacciata dalla città di Avellino, salvando loro la vita. Era il 1256, e a far data da quel miracolo non è mancato anno che i “femminielli” non tornassero qui a rievocare il romanzato evento, aggiungendosi alle ragazze che scalavano il monte a bordo di carrettoni trainati dai muli o a piedi attraverso le mulattiere che si inerpicavano per i boschi, intrecciando lungo il tragitto rami di ginestra che avrebbero sciolto davanti alla Madonna solo in presenza di uno sposo. Andò avanti così fino a quando, nel 1956, la voglia di ricostruire un’Italia che voleva rinascere dopo una guerra devastante assunse le forme di una modernissima funicolare che in pochi minuti carrucolava sul monte virgiliano “cafoni”, omosessuali, alternativi-devoti e paranze di suonatori. Effetto collaterale di cotanto ingegno fu l’estinzione del pellegrinaggio a piedi, allo stesso modo in cui, per Gabriel Garcia Marquez, l’arrivo del treno causerà la fine di Macondo, dopo cent’anni di solitudine. Oggi che, viceversa, tutto ciò che è pubblico è destinato alla dismissione e viviamo in pieno “ciclo del privato”, per dirla con lo storico Paul Ginsborg, la funicolare versa in stato di abbandono ma i fedeli, lungi dal riprendere l’antica usanza di venir su per i boschi, intrecciando le donne in età da marito rami di ginestro, preferiscono incolonnarsi con le loro auto – o a bordo di bus organizzati, alimentando così il business del turismo religioso – lungo i tornanti che si arrampicano verso il santuario.

Messa alle ore 11

La funzione cattolica è prevista per le 11. A mano a mano che l’ora si avvicina il sagrato del santuario e la piazza che lo separa da un albergo di proprietà dei padri virgiliani, anch’esso abbandonato e cadente dopo aver ospitato durante la seconda guerra mondiale gli sfollati dai bombardamenti angloamericani, si riempiono di fedeli. Le paranze di suonatori, guidate dal cantatore, si dislocano nei vari angoli a distanze che spesso non permettono di mantenere separate le rispettive tammurriate, con il risultato di confondersi in un unico rollìo di sottofondo. ‘O lione di Scafati, un signore dal volto rubizzo e dalla voce tonante annunciato da un pannello di legno che pubblicizza la sua paranza, dice di lavorare al recupero della cultura musicale contadina e di far ballare con i suoi ritmi i fedeli dell’intero ciclo mariano in Campania. Tre travestiti con parrucche appariscenti si esibiscono a uso e consumo di fotografi, ma l’esibizionismo non è molto gradito tra gli stessi gay venuti a rendere omaggio a Mamma Schiavona. “I femminielli vengono qui da secoli e non sono mai stati discriminati da nessuno perché hanno sempre mantenuto una grande sobrietà”, spiega Massimo di Maria, un ragazzo arrivato da Castellammare di Stabia. Come tanti altri giovani arrivati fin qui, Di Maria sostiene di non essere “credente” e ciononostante di venire qui ogni anno “per rispetto della tradizione”. E ho l’impressione che il richiamo alla “tradizione” spieghi il senso di questa festa molto più che qualsiasi riferimento al sacro: si tratta – a me pare – del desiderio di recuperare usanze e costumi di quella civiltà contadina che, scriveva il poeta lucano Rocco Scotellaro, “sarà sempre vinta ma non si lascerà mai schiacciare del tutto” e “si conserverà sotto i veli della pazienza per poi esplodere di tratto in tratto”. Ed è proprio qui, in questa festa dalle radici antiche che riesce ad avvicinare il diavolo all’acqua santa e a sciogliere ogni pregiudizio in una convivenza pacifica, che vedo riemergere alcune di quelle usanze dalle catacombe culturali in cui erano state occultate sotto il miraggio della modernità e l’appiattimento della globalizzazione. Osservo la gente ordinatamente in fila per una fetta di “caciocavallo impiccato” – un formaggio appeso come a una forca a sciogliersi sui carboni ardenti – mentre, in attesa della cerimonia religiosa, a ballare al ritmo delle tammorre è tutto insieme il variegato popolo dei fedeli della madonna nera-bizantina che per nascondere le sue fattezze si rifugiò tra questi monti popolati solo da orsi e lupi, e come il brutto anatroccolo della fiaba di Andersen, si trasformò per miracolo nella più bella delle sette madonne della regione.

Il gioco della Tombolella

Caro Ciccillo, io mi avveleno colle capuzzelle di fiammiferi perché tu ammogliandoti non potrai più abbracciare chi tanto ha sofferto per te arrivando a darti finanche il suo onore. Del resto io ti perdono dell’offesa fattami perché sei cattivo come tutti gli altri uomini. In qualche momento della tua vita e delle tue gioie arricordati del tuo aff. amante Carluccio.

A questa lettera, datata 1897, seguì una così imponente ingestione di testine di fiammiferi da provocare la morte dell’autore per avvelenamento da fosforo, indotto da gelosia acuta e opprimente. La ritrovo in uno scritto di Abele de Blasio, un antropologo partenopeo che alla fine dell’800 studiò il fenomeno dello “spusarizio masculino”, un matrimonio laico tra due uomini che si celebrava in un basso dei Quartieri Spagnoli a Napoli, al termine del quale il “femminiello”, che nella coppia rappresentava la donna, offriva tarallucci e vino ai presenti mentre alcuni suonatori di organetto davano il via ai festeggiamenti. L’usanza prevedeva che la mattina seguente uno degli omosessuali più vecchi del quartiere, detto “‘o ricchione anziano”, accompagnato da un caffettiere ambulante, andasse a offrire latte e caffè alla neocoppia e, forte di cotanto alibi, verificasse se il matrimonio era effettivamente stato consumato. Nei bassi napoletani l’appuntamento tradizionale dei “femminielli” era dopo la mezzanotte per giocare la Tombolella, un passatempo molto diffuso in cui il ruolo principale dei travestiti era quello di “chiamare” i numeri secondo la Cabala napoletana, reinterpretata in chiave gay-lesbo: il 3 è ‘o femminiello, l’8 il bacio che non potrò mai avere, il 63 le zitelle lesbiche. Questa digressione ha una sua spiegazione. Ogni anno, infatti, all’alba del 2 febbraio, i “femminielli” napoletani si danno appuntamento nella centralissima via Toledo, a pochi metri dai Quartieri Spagnoli, per partire alla volta di Montevergine. Ora sono davanti a me sul sagrato del santuario, mescolati agli anziani e alle famiglie con i bambini, a testimoniare una storia di grande tolleranza popolare, oscurata solo di recente dalla demagogia fascistoide e oscurantista di politici della destra ed esponenti ecclesiastici. Non fosse in virtù di tale cultura, che demolisce nei fatti ogni stereotipo sul machismo latino delle popolazioni meridionali, difficilmente si riuscirebbe a spiegare come mai due regioni di quel Sud Italia considerato poco “liberal” sulle questioni sessuali, la Puglia e la Sicilia, siano governate da politici che non hanno mai fatto mistero della loro omosessualità e che riescono a far convivere – altro ossimoro da queste parti non concepito come tale – ideologia post-comunista e fede cattolica. Non riuscendo a opporsi a una “tradizione” così radicata, anche le gerarchie ecclesiastiche sono costrette a sopportare la “juta dei femminielli” al santuario di Montevergine, ma solo a patto che l’eco della manifestazione rimanga circoscritta ai boschi del Partenio e i partecipanti non si sognino neppure di compiere a ritroso il percorso dei due gay messi alle porte nel 1256. Invece, da una decina d’anni, a latere della cerimonia, le associazioni lgbt – un acronimo che identifica la comunità lesbo-gay-bisexual-transgender, a cui a volte si aggiunge la q di queer – organizzano manifestazioni per i diritti e i matrimoni gay, mostre fotografiche ed eventi ludici. E’ per questo motivo che nel 2002 l’abate Tarcisio Nazzaro infranse la tacita regola di convivenza ed espulse dall’abbazia i “femminielli” come aveva fatto Gesù Cristo con i mercanti che affollavano il tempio. Ogni anno, da allora, si rinnova il braccio di ferro e la “festa della luce” – com’è pure soprannominata la ricorrenza del 2 febbraio – ha un’appendice politica. Se si scava più a fondo nella storia, tuttavia, si scopre che il Montevergine, com’è denominato il Partenio, ha una consuetudine plurimillenaria con quella cultura che oggi definiremmo “transgender”, con buona pace dell’abate e delle sue invettive. La “juta dei femminielli” potrebbe infatti rappresentare la coda estrema di un’usanza che risale ai tempi in cui al posto del santuario consacrato a Mamma Schiavona esisteva un tempio dedicato a Cibele, dea della fertilità venerata dai contadini e dai “gallae”, i transessuali dell’epoca. Ciò è talmente vero che i sacerdoti della “Grande Madre” – com’era soprannominata la divinità pagana – amministravano il culto abbigliati con abiti femminili.

La band di Pomigliano

Il “gruppo storico” dei “femminielli” partiti da via Toledo a Napoli si affolla attorno a Marcello Colasurdo, frontman dei Zezi, band operaia di Pomigliano d’Arco che, rielaborando la musica dialettale popolare, ha messo a nudo in rime baciate il mito dell’industrializzazione che distruggeva la civiltà contadina molto prima che arrivasse, negli stessi luoghi, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ad annunciare il nuovo capitalismo “dopo Cristo”, prospettando per la cittadina alle porte di Napoli un futuro post-industriale alla Detroit – la ex “motor city” americana ora ridotta in macerie a causa del declino delle sue fabbriche - senza alcuna prospettiva di riconversione produttiva e dunque di lavoro. Colasurdo ogni anno presta la sua voce alla “juta dei femminielli” e intona un suggestivo canto di saluto e ringraziamento davanti al quadro, appena restaurato, della Madonna, uno spettacolo che da solo vale la fatica di esser venuti quassù. Alle 11 si ferma come per incanto il rollìo delle tammorre e i fedeli si accalcano in chiesa, ognuno di loro con un cero acceso tra le mani. I “femminielli” si mescolano alla folla, irriconoscibili se non per qualche dettaglio o vezzo che solo uno studioso di moda o tendenze gay-lesbo sarebbe in grado di riconoscere, ma l’attesa di una nuova cacciata dal tempio si risolve in un nulla di fatto. I padri virgiliani confermano invece il divieto di usare le tammorre, che secondo un’antica superstizione religiosa sarebbero “strumenti del diavolo”. Al termine della cerimonia, una parte dei fedeli si sposta nella piccola cappella in cui è custodita l’immagine di Mamma Schiavona. L’ambiente è decisamente più piccolo e non tutti riescono a entrare. Marcello Colasurdo avanza fino al ritratto e intona il suo canto, una suggestiva litania che dura circa mezzora, con un ritornello che si ripete alla fine di ogni strofa: «Statti bona Madonna mia, l’ann’ che vene turnamm’ a venì». Il singolare concerto proseguirà all’esterno, con una scatenata e coinvolgente serie di vocalizzi sulla “scalinata santa” che porta nel santuario, la stessa che ogni 12 settembre le donne salgono in ginocchio per prostrarsi alla Madonna, anche qui in un miscuglio di sincretismo contadino e religione. Tra canti, balli e vino che scorre a fiumi si va avanti ancora per qualche ora, prima di darsi appuntamento all’anno seguente. I “femminielli” napoletani ripartono per Toledo e i Quartieri Spagnoli, dove li aspetterà una tombolella serale. Altri si fermeranno ad Avellino per le feste organizzate dalla locale comunità gay.

Una pagina di Montaigne

Al ritorno da San Pietro incontrai un uomo che mi dette, scherzando, due notizie: la prima che i portoghesi prestano obbedienza la settimana della Passione; la seconda che quello stesso giorno la stazione era a San Giovanni a Porta Latina, chiesa nella quale certi portoghesi avevano fondato qualche anno fa una strana confraternita: si sposavano maschi con maschi alla messa, con le medesime cerimonie che noi usiamo per il matrimonio, facevano comunione insieme, leggevano il vangelo stesso delle nozze e poi dormivano e abitavano insieme. Dicevano le battute dei romani che, dal momento che l’unione fra maschio e femmina è resa legittima soltanto dalla circostanza del matrimonio, a quei sottili personaggi era parso che l’altro atto sarebbe diventato anch’esso legittimo, perché autorizzato dalle cerimonie e dai riti della Chiesa. Furono bruciati otto o nove portoghesi di questa setta.

Leggo queste pagine di Michel de Montaigne mentre la Francia socialista e i conservatori britannici votano in Parlamento i matrimoni gay, e il presidente degli Stati Uniti Obama prova ad abolire la legge che li vieta. Il filosofo francese racconta – nel suo Journal de Voyage en Italie par la Suisse et l’Allemagne (en 1580 et 1581) – quanto avveniva in una delle chiese basilicali più antiche di Roma: quella di San Giovanni a Porta Latina. Si tratta di uno degli innumerevoli tesori nascosti di una città da questo punto di vista unica al mondo. A Roma oggi è conosciuta come “la chiesa dei matrimoni”, perché considerata un buon posto, discreto e accogliente, per sposarsi. Doveva esserlo, a quanto pare, anche nel XVI secolo, al punto da consentire di celebrare nozze omosessuali a pochi chilometri dal Vaticano, mezzo millennio prima che il cardinale Joseph Ratzinger, non ancora papa – era il 2003 - con un “manifesto” di appena dodici pagine inaugurasse la crociata ecclesiastica contro le unioni gay, giudicate “innaturali, immorali e dannose”. Non che quella vicenda avesse avuto un lieto fine: a quanto risulta, gli esponenti della confraternita – forse ebrei convertiti, fuggiti dalle persecuzioni antisemite in Spagna e Portogallo – non superarono l’esame del Tribunale dell’Inquisizione. A loro toccò la stessa sorte riservata quasi vent’anni prima a Gian Luigi Pascale, pastore dei valdesi di Calabria su mandato diretto di Giovanni Calvino: impiccati perché una volta messi al rogo non soffrissero le pene dell’inferno, bruciati e le loro ceneri gettate nel Tevere affinché fosse dispersa ogni possibile reliquia, in una cerimonia pubblica davanti a Castel Sant’Angelo, alla presenza di un nutrito parterre di cardinali e con l’assistenza dei frati della Confraternita di San Giovanni Decollato. Questo reportage, partito dai 1.300 metri del monte su cui la leggenda vuole si ritirasse ogni estate Virgilio a coltivare piante officinali, ha un’appendice obbligata in questa chiesa di un tranquillo quartiere romano composto da villini d’inizio novecento. Dovendo affrontare la questione – quanto mai complessa – del rapporto tra società, chiesa cattolica e omosessuali nell’Italia centro-meridionale, mi è capitato di imbattermi negli “spusarizi masculini” di fine ‘800 nei Quartieri Spagnoli di Napoli e in quelli della confraternita cattogiudaica portoghese a Roma. In un momento in cui il vento di scirocco – quassù non così caldo come a valle - è riuscito ad allontanare le nubi e a illuminare il santuario di una luce calda e intensa come solo a certe latitudini si riesce a vedere, ho compreso pure perché un raggio di sole tra le nubi, nel 1265, possa essere stato considerato un miracolo. Inutile dire che oggi, nella chiesa di San Giovanni a Porta Latina, non rimane traccia di quel passato a dir poco scomodo. Ci hanno pensato il tempo e le acque del Tevere in cui furono gettate le ceneri dei condannati a morte a lavare ogni ricordo. Nei Quartieri Spagnoli, invece, si gioca ancora alla Tombolella. “Chist’è ‘o dito… chest’è ‘a mano… chist’è ‘o culo d’o panaro”, urla il travestito mostrando la mano che ha appena estratto dal “panaro”, il cesto con i numeri della tombola. Poi la apre, e quando esce il 3 non ha bisogno di nominarlo. Dice “ ‘o femminiello” ed è quanto basta.

Angelo Mastrandrea
(rivista Il Reportage,                                                febbraio 2013)
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